L’intervista di Paola Di Caro
«Per collaborare non abbiamo bisogno di poltrone. E forse ora non c’è neanche il tempo né la possibilità di metterci a fare una lista di ministri, di gabinetti, di deleghe e via discorrendo. Insomma, non c’è il bisogno di un governo di unità nazionale». Lo dice Giorgia Meloni, il giorno dopo l’incontro a Palazzo Chigi con il premier Conte nel quale lei e gli altri leader del centrodestra hanno ribadito la disponibilità a collaborare con il governo per affrontare l’emergenza coronavirus.
Chiedete voce in capitolo: ma come, se nella «stanza delle decisioni» non ci siete? «È possibile collaborare se si istituisce un luogo permanente di confronto, e può essere solo il Parlamento. Si crei una unità di crisi parlamentare, un organismo — che può essere perfino la conferenza dei capigruppo, magari allargata — dove si possa fare il punto, nella quotidianità».
Ma quando ci sarà da ricostruire l’Italia, può servire un governo di tutti? «L’emergenza è una cosa, l’ordinario è altro. La ricostruzione e il rilancio del Paese non sarà questione di mesi, ma di qualche anno. E io penso che, superata questa prima fase terribile, non si potrà continuare con la melassa, perché si tornerà alla politica, alle diverse visioni che andranno confrontate e illustrate ai cittadini che poi dovranno scegliere e dare a chi governerà un mandato lungo, stabile, certo, di cinque anni».
Quindi bisognerà tornare al voto in tempi medi. Ma intanto il Parlamento è aperto. «Sì, ma si convoca una volta a settimana praticamente solo per dare comunicazioni. L’unica cosa che ha concesso davvero e sempre Conte è stata l’informazione, la comunicazione, anche di cose che non aveva ancora fatto, come si è visto sabato notte su Facebook per un decreto che ancora non c’era…».
Il governo vi chiede responsabilità, il capo dello Stato auspica che si remi tutti dalla stessa parte… «Ma il mio partito della responsabilità e della disponibilità ha fatto una bandiera! Siamo noi ad aver chiesto da tempo il lockdown totale, noi ad aver insistito per alzare da 6 a 30 miliardi i primi interventi economici, noi a proporre una legge per l’estensione del golden power dello Stato su società strategiche, noi a suggerire misure a tutela dei disabili, premi a chi è costretto a lavorare, tutte cose che alla fine il governo ha recepito».
Quindi vi ascoltano? «Diciamo che poi le nostre idee sono un po’ modulate a loro piacimento. Nell’incontro di lunedì Conte ci ha detto che possiamo fare emendamenti ma solo a saldi invariati. Quindi non possiamo incidere davvero: non posso dire cosa penso del primo decreto se non mi si dice quali e quanti saranno i prossimi decreti, con quale impegno di spesa e con quale visione. Che poi l’interesse maggiore a condividere il peso oggi dovrebbe essere loro…».
Perché? «Lo dico con massimo senso di responsabilità, siamo in emergenza, il momento è drammatico, certe scelte sono comprensibili. Ma noi stiamo pesantemente limitando le libertà personali dei cittadini con dei decreti del presidente del Consiglio dei ministri. Quantomeno è un precedente molto delicato, potenzialmente anche pericoloso: non è meglio avere condivisione, appoggio del Parlamento quando si compiono scelte così gravi?».
Cosa non condividete oggi? «C’è un problema di comunicazione e uno di visione. Non si può chiamare Cura Italia un decreto che è un mero cerotto, non si può mettere ansia alla gente parlando a mezzanotte. E non si può rischiare la desertificazione del sistema produttivo non dando prospettive chiare agli imprenditori, non premiando chi invece di chiudere resiste. Di questi temi vogliamo parlare, questi problemi vogliamo aiutare a risolvere. Se ci mettono in condizione di farlo».